La Comunitā del Molo
Abbiamo chiesto ad Andrea Canevaro di darci qualche notizia su questa comunità che rappresentò un frutto, forse un po' sofferto, del nostro clan. Quello che ci ha inviato può essere il primo tassello di un quadro più ampio e completo di questa esperienza...chiederemo anche agli altri

(inviato da Andrea Canevaro). L’esperienza del Molo fu dettata dal desiderio di non vivere lo scoutismo e ciò che rappresentava per alcuni di noi come un fatto giovanile (malattia infantile?) o come qualcosa di marginale nella vita di e da persone adulte.

 Erano gli anni ’60, e vi era un movimento di idee e di impegni operativi che a qualcuno di noi sembrava forte e che forse non era tale. Era un movimento fortemente critico nei confronti delle istituzioni per “ragazzi difficili”, istituzioni che avevano il compito sostanziale di sottrarre quei ragazzi alla vita sociale “aperta”. Vi erano istituti, e alcuni, o molti, non si distinguevano molto dai carceri minorili. E vi erano esempi che ci entusiasmavano, come don Zeno Saltini e Nomadelfia, prima,e don Sirio Politi, poi.

Don Zeno aveva scelto di costruire una società nuova (Nomadelfia) composta da “famiglie di vocazione” capaci di accogliere e accompagnare nella crescita i tanti bambini, e bambine, difficili che popolavano gli istituti. Per questo, don Zeno praticava la condivisione dei beni, oltre che una vita comunitaria molto partecipata. Sembrava proprio ciò che alcuni di noi desideravano fare del nostro impegno scout “adulto”. Ma proprio questo ci faceva ritenere giusto non tanto andare a condividere l’esperienza di ed a Nomadelfia, quanto realizzare qualcosa di nostro, in cui investire il nostro percorso scout, vivendo insieme. E quindi uscendo dalle nostre abitazioni famigliari e cercando una casa in comune. Che fu nel quartiere del Molo, per ragioni sostanzialmente legate ad affitti compatibili alle nostre esigenze. E fu la comunità del Molo, nome che rimase anche per le altre poche abitazioni che videro lo svilluppo del progetto. Che aveva al suo centro l’impegno educativo con ragazzi difficili. Le nostre convizioni si basavano sull’assunto che il comportamento di un individuo e la scelta del suo modo di essere nel mondo sono strettamente legati alla sua visione del mondo, che essendo disfunzionale crea una condotta irregolare, unita al tipo di proiezione verso il futuro.

Per aiutare un ragazzo difficile, dovevamo utilizzare il suo comportamento irregolare come punto di partenza per cercare di comprenderlo; per soddisfare i bisogni naturali di quello che è poi stato  indicato come “protagonismo dei giovani” (che caratterizzava anche noi: volevamo essere protagonisti...).

 Oggi riformulo quell’impegno riferendomi alla “riduzione del danno”, di cui allora non si parlava:

- la conoscenza: riuscire a guardare un ragazzo e il mondo con i suoi occhi, per cogliere empaticamente la sua particolare visione del mondo; osservare, condividendo, per comprendere, per conoscere insieme.

- la destrutturazione e ristrutturazione: in cui si individuano gli interventi rivolti alla dimensione psicofisica di un ragazzo; azioni ed interazioni mirate al superamento di alcuni limiti oggettivi che gli impediscono di esercitare la sua capacità intenzionale.

- la dilatazione: in cui un insieme di azioni cercano di rendere dinamica la vita di un ragazzo proprio per indurlo a superare quelle fissazioni dei suoi interessi che lo ancorano a schemi di comportamento asociali.

- la costruzione di una nuova visione del mondo, cioè di un'appropriazione soggettiva. Osservare condividendo e guidare verso la consapevolezza del  cambiamento e delle conseguenze di un nuovo modo di dirigersi nel mondo.

 Non avremmo mai detto queste parole allora. Come ho già accennato, volevamo essere protagonisti. Ma ci sentivamo impreparati. Non ci sembrava di dover cercare di fare nostri dei contenuti “tecnici” o “scientifici” relativi ai ragazzi difficili. Ci interessava approfondire e radicare le nostre convinzioni circa lo stile di vita. Per questo accostammo l’esperienza di don Sirio, prete-operaio a Viareggio. Si presentava, e rappresentava, come vita comunitaria da cui ciascuno esce per andare a lavorare (dove ha trovato lavoro...) e dove ciascuno ritorna per condividere l’organizzazione della quotidianità più semplice. E questa condivisione ha un senso che va un po’ oltre le ragioni materiali, che sono però un punto d’appoggio insostituibile. La ricerca di quell’oltre ci portava alla comunità di don Sirio: pensavamo che avremmo certamente dovuto maturare ascoltando, ma anche convididendo uno stile di condivisione.

Ritenevamo che l’impegno educativo si alimentasse dalla ricerca di tenere insieme, intrecciandole, dimensioni di partecipazione religiosa e di partecipazione politica, senso di appartenenza ecclesiale e capacità di vivere tutte le libertà civili. Sembrava importante non affidare a professionisti le responsabilità educative di ragazzi ritenuti difficili, ma vivere tali responsabilità a partire da qualsiasi lavoro uno faccia, nella condivisione della quotidianità (abitazione, alimentazione, tempo libero... progetti...).

 Era un’utopia. E anche una provocazione. Credo che le abbiamo vissute tutt’e due con la stessa passione. L’utopia si è scontrata con la realtà e ne è stata travolta. Direi che la passione è rimasta. E ha costituito l’anima delle scelte successive.

La realtà ha posto e pone domande intransigenti. Si può portare nel lavoro, in qualsiasi lavoro, la sostanza dello scoutismo? Si può impegnarsi per restituire lavorando quello che lo scoutismo ci ha regalato?

Il Molo è stata un’esperienza che non si può rinnegare. Voleva permettere di mettere le nostre esperienze scout al servizio di progetti educativi per ragazzi difficili. Con semplicità. Ma capivamo – non eravamo così ingenui – che un’esperienza del genere era in sè una provocazione. Anche se questo termine era del tutto estraneo alla stessa esperienza.

 

 N.d.r: Andrea Canevaro (1939). Dal Curriculum.

Professore ordinario di Pedagogia Speciale presso l'Ateneo di Bologna.
Laureato in Lettere e Filosofia, ha avuto una borsa di studio all'Université Lyon 2, seguendo gli studi del Prof. Claude Kohler, e occupadosi di infanzia con ritardo mentale.
Ha lavorato nel campo della devianza giovanile.
Nel 1973 ha avuto l'insegnamento di Pedagogia Speciale presso la Facoltà di Magistero, divenuta successivamente Facoltà di Scienze della Formazione, nell'Ateneo di Bologna
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